LA COGNOMIZZAZIONE DEI PREDICATI DEI TITOLI NOBILIARI
ALLA LUCE DELLA CIRCOLARE
DEL MINISTERO DELL’INTERNO 10/2008
di
Roberto Maria Merlo de Fornasari
SOMMARIO: 1. ― Profili di illegittimità rivenienti dalla circolare del Ministero dell’interno
1. ― Profili di illegittimità rivenienti dalla circolare del Ministero dell’interno
Il Ministero dell’interno (1), con circolare
In disparte, per intanto, la questione sostanziale che ne forma oggetto (4), non ci si può esimere dall’osservare che la circolare – se ragguagliata al D.L.vo
Sotto il primo aspetto, considerato che la circolare integra un vero e proprio atto di orientamento esegetico, appare violato il disposto dell’art. 4, comma 1, lett. a), del predetto D.L.vo n. 165/2001, che, nel precluderne l’emanazione ai funzionari di livello dirigenziale, prevede che «Gli organi di governo esercitano le funzioni di indirizzo politico-amministrativo …» (7), a essi spettando, in particolare, «le decisioni in materia di atti normativi e l’adozione dei relativi atti di indirizzo interpretativo ed applicativo»: la riscontrata manifesta trasgressione – grave soprattutto perché intacca, altera e sovverte i predefiniti delicati equilibri dei rapporti fra politica e apparato burocratico – permette già di attestare che la circolare de qua, ex art. 26 del R.D.
Non si può ragionevolmente obiettare sulla diretta applicabilità di tale precetto ai dirigenti, cui concerne sì, nel quadro del riparto delle competenze, l’assunzione degli atti e dei provvedimenti amministrativi (9), ma cui non pertengono attribuzioni ulteriori rispetto a quelle predeterminate dall’art. 4, comma 2, del D.L.vo n. 165/2001, considerata la riserva di legge contenuta nel successivo comma 4, secondo cui vi si può derogare soltanto espressamente e a opera di specifiche disposizioni legislative (10).
Ma ancor più pregnante è l’elusione operata dalla ripetuta circolare con riguardo all’attuazione del regolamento per la revisione e semplificazione dell’ordinamento dello stato civile (D.P.R. n. 396/2000, cit.), disfunzione che ne implica l’adozione in violazione di legge (11), attesa la proclamazione che, in ipotesi di «proposizione di una domanda di modifica del cognome al fine di ottenere la cognomizzazione del predicato», essa «verrebbe rigettata per carenza di competenza».
La circolare n. 10/2008, infatti, enuncia in modo non del tutto condivisibile che ove la domanda di modifica del cognome «sia in realtà motivata e giustificata dal presunto diritto dell’interessato a vedersi riconoscere il diritto alla cognomizzazione del predicato», «solo l’autorità giudiziaria ordinaria ha competenza a verificare la fondatezza di un simile diritto»: l’antescritta circolare, per avvalorare l’assunto della riconduzione della problematica entro la disciplina privatistica del diritto al nome (art. 6 e ss. c.c.), dichiara trattarsi «di una azione di accertamento di un diritto soggettivo dei cittadini (art. 6 c.c.) che non rientra nell’ambito discrezionale dell’autorità amministrativa».
Il Ministero appoggia siffatta tesi sulla sentenza della Corte di cassazione
In realtà, il quadro giuridico di riferimento della predetta pronuncia giurisprudenziale era costituito dall’abrogato R.D.
Ed è proprio l’art. 6 del codice civile a contenere, per tutte le ipotesi di cambiamento, aggiunta o rettifica al nome, un’apposita norma di rinvio ai casi e alle formalità indicati dalla legge, e cioè, ancora una volta, al D.P.R. n. 396/2000, che appositamente ciò norma.
La circolare n. 10/2008 sembra non distinguere l’interesse legittimo all’aggiunzione in sede amministrativadel predicato di un titolo nobiliare («qualora la richiesta appaia meritevole di essere presa in considerazione» recita l’art. 86, comma 1, del D.P.R. n. 386/2000, cit.) (16) con la ben diversa posizione di diritto soggettivo riconosciuta a chi si ritenga danneggiato dall’uso illecito che altri faccia del proprio nome (usurpazione) o da atti di terzi tendenti a contrastarne l’uso (reclamo) (17), nelle quali evenienze, sì, il rimedio – contestandosi il pregiudizio d’un diritto soggettivo – è offerto dall’esercizio in giudizio delle corrispondenti azioni, che hanno carattere inbitorio in quanto dirette a ottenere la cessazione del fatto lesivo, salvo il risarcimento dei danni (artt. 6 e 7 c.c.): ebbene, solo allora sarà competente il giudice ordinario.
Perciò, la prefata affermazione ministeriale (18) va rettificata nell’accezione secondo cui, allorché siano denunciate questioni suscettibili di cognizione in sede di giurisdizione amministrativa – quali manifesta irragionevolezza delle argomentazioni amministrative, difetto di motivazione (19), difetto di istruttoria, insufficienza della prova genealogica offerta, violazione di legge per ricusazione di competenza, &c. – il ricorso avverso il diniego di cognomizzazione andrà interposto innanzi al T.A.R. del Lazio nei confronti del Ministro dell’interno pro tempore (20).
Nel caso che ne occupa, il rifiuto ministeriale di applicare la legge è tanto più rilevante quanto più incide sul diritto al nome, per sua intrinseca natura imprescrittibile, non usucapibile e costituzionalmente riconosciuto e garantito dall’art. 22 (21) della vigente Carta suprema (22): d’altro canto, è la stessa sentenza della Corte costituzionale sulla legislazione nobiliare (23), in narrativa, a sussumere il diritto alla cognomizzazione del predicato entro i modi di acquisto del nome, oltre che per la relativa tutela (24).
Non pare si possa revocare in dubbio, quindi, che l’art. 84 del richiamato D.P.R. n. 396/2000 intenda racchiudere, giusta la sua dizione chiara, espressa e inequivoca (25), anche la fattispecie della cognomizzazione dei predicati dei titoli nobiliari.
Il nuovo ordinamento dello stato civile, in effetti, regola in maniera estremamente dettagliata, ampia e onnicomprensiva la materia del mutamento del diritto al nome, suddistinguendola fra cambiamento e modificazione: il cambiamento del cognome è prescritto dall’appena menzionato art. 84 (nelle forme del cambiamento e dell’aggiunta), mentre la diversa tematica delle modificazioni del nome (il prenome) o del cognome (perché ridicolo o vergognoso o perché riveli un origine naturale) è stabilita dall’art. 89 (26).
La disciplina è affatto compiuta, senza che se ne possa trarre la conseguenza, frettolosa e sommaria, dell’esclusione della possibilità di mutare in sede amministrativa il cognome per il tramite dell’aggiunzione di un predicato di titolo nobiliare (anche se, nondimeno, si deve subito rilevare che, con riferimento all’argomento specifico, l’ordinamento dello stato civile va adattato attraverso il necessario coordinamento con il disposto costituzionale della XIV disposizione citata, che ne circoscrive l’ambito di possibile soddisfacimento ai soli predicati dei titoli nobiliari esistenti prima del
Altresì, la circostanza che il nuovo ordinamento dello stato civile non contenga più il rimando puntuale, effettuato dall’art. 158, terzo comma, del R.D. n. 1238/1939, cit., alla proibizione assoluta di attribuzione – in via di variazione del precedente cognome perché ridicolo o vergognoso o perché rivelante origine illegittima – di casati iscritti nell’elenco ufficiale della nobiltà italiana (oltre che di predicati, appellativi o cognomi preceduti da particelle nobiliari), non può far ritenere che la rinnovata formulazione del limite (contemplata dall’art. 89, comma 3, cit.) riproduca e ricomprenda fedelmente la dianzi indicata, esaurita, elencazione ostativa, onde non si può aprioristicamente escludere tout court, conformemente ai principî generali che presiedono all’interpretazione (e dato il brocardo ubi lex voluit dixit ubi noluit tacuit), che, in sede di domanda di modifica del cognome (rivolta ex art. 89, D.P.R. n. 396/2000, cit.), possano essere assunti predicati, appellativi o cognomi preceduti da particelle genericamente (non più giuridicamente) nobiliari, purché non pertinenti a cognomi di importanza storica o comunque tali da indurre in errore circa l’appartenenza del richiedente a famiglie illustri o particolarmente note nel luogo in cui si trova l’atto di nascita del richiedente o nel luogo di sua residenza: a fortiori, pertanto, nulla preliminarmente vieta che, ex art. 84 D.P.R. n. 396/2000, cit., si possa domandare la cognomizzazione di un predicato di titolo nobiliare, purché appartenente a famiglia con la quale il richiedente abbia rapporti di parentela e che, comunque, coincida con un cognome facente parte della famiglia alla quale il richiedente medesimo appartiene (27).
D’altronde, la medesima Direzione centrale per i servizi demografici, con circolare
Incidentalmente, la nominata circolare n. 10/2008, oltre alle segnalate reiterate illegittimità in cui incorre – e che ridonderebbero sulla legalità degli atti eventualmente assunti in ottemperanza ai suoi dettami – non coglie la macroscopica differenza (perfettamente percepita dalle precedenti nn. 44/2004 e 5/2005) che intercorre fra parere ed elemento informativo, dato che sottolinea l’opportunità di «acquisire in ogni caso in prima battuta il parere dell’Archivio centrale dello Stato-Ufficio Consulta Araldica»: non occorre grande scienza giuridica per arguire che l’Archivio di Stato non rilascia pareri in materia di ordinamento dello stato civile – che, per altro, neppure potrebbe emettere in via facoltativa ex art. 16, comma 1, della legge
2. ― Le possibili conseguenze sotto il profilo della disparità di trattamento derivanti dalla cognomizzazione del predicato nobiliare «de Hauteville» disposta dal Ministero dell’interno.
Ma c’è di più. Si è potuto appurare (34) che il Ministero dell’interno, con decreto ministeriale
Interpellato in proposito, il Direttore centrale ha replicato (35) che, «Relativamente al caso “Cilento de Hauteville” (istanza presentata dal Sig. Antonio Calabria e figli) si precisa che … l’istanza non è stata accolta sul presupposto della appartenenza o meno ad una famiglia nobiliare, bensì a seguito della produzione di documentazione idonea a dimostrare che gli ascendenti degli istanti erano effettivamente noti con il cognome richiesto che era poi andato perduto anagraficamente nel tempo. Tutta la famiglia aveva però continuato ad essere nota negli ambiti lavorativo-sociale con il cognome richiesto, come comprovato anche dalla documentazione prodotta. A tal proposito si rileva che è stata accertata l’esistenza di una sentenza della Corte di cassazione (n. 10936/97 del
Il Ministero, disputando in questo modo, incappa in evidenti vizi logici (37); veramente, dalla sentenza di Cassazione n. 10936/1997, si deducono irrefutabilmente due circostanze: che d’Hauteville è un predicato di titolo nobiliare, e che il resistente – beneficiato dalla recente cognomizzazione – lo utilizzava di fatto (38).
La Direzione centrale, nella relazione per il Signor Sottosegretario di Stato (39) ha omesso ogni allusione alla natura giuridica della parte del nome da aggiungere, insistendo – d’istinto – sul fatto che l’istante e i figli, anche se nei registri dello stato civile risultano iscritti con il solo cognome «Calabria», sono da tutti identificati col nome «Calabria Cilento di Hauteville» e questo perché discendenti dalla Principessa Assunta Cilento de Hauteville, nonna paterna (40).
A giustificazione della cognomizzazione d’un predicato di titolo nobiliare – senza aver prima interrogato l’Ufficio Consulta Araldica (come residualmente predicato nella circolare n. 10/2008) e dopo aver ammonito a non «aggirare i limiti precisi posti dalla disposizione costituzionale cercando di raggiungere, per via amministrativa, un risultato altrimenti non raggiungibile per via giudiziaria» – il Ministero, per smentire che ciò sia avvenuto, rimanda alla sentenza di Cassazione n. 10936/1997, che rafforza la contraria argomentazione: anziché emanare la circolare n. 10/2008, in itinere sin dall’anno precedente, sarebbe stato forse più opportuno affrontare serenamente e con equilibrio – secondo modalità improntate al rispetto del modulo organizzativo dell’imparzialità sancito dall’art. 97 della Costituzione – la contrastata problematica della cognomizzazione dei predicati dei titoli nobiliari, inquadrandola per ciò che ormai rappresenta, vale a dire come un modo di acquisto del nome (41).
Nonpertanto, la cognomizzazione del predicato di titolo nobiliare «de Hauteville», se riguardata obiettivamente nel presunto concorso degli appropriati presupposti di diritto e di fatto, ha, sia pure con motivazione incoerente (ove ragguagliata alla circolare n. 10/2008 e alla XIV disposizione), tutelato l’interesse pubblico cui è rivolta la normativa sul cambiamento del cognome.
Se non si può di certo cognomizzare un predicato nobiliare con un artificio dopo averne contestata la giuridica possibilità in sede amministrativa, unicamente riferendosi al riflesso di mere esigenze di tutela dell’immagine sociale della persona, perché sempre usato e da tutti così riconosciuto, lo si sarebbe invero potuto cognomizzare – in adesione a Cassazione n. 10936/1997, cit. – in quanto vero e proprio elemento di individuazione e di identità della persona in quanto tale, sempre che si fosse correttamente richiamato in premessa che di predicato nobiliare si tratta e si fosse appurata la giuridica esistenza del titolo prima del
Invece, qualora il Ministero, dopo aver cognomizzato un predicato di titolo nobiliare con motivazione elusiva della reale natura di codesta parte del nome, rifiutasse, in casi simili o in situazioni analoghe, l’aggiunzione del predicato proprio perché intrinsecamente tale, si avvererebbe un tipico e classico esempio di disparità di trattamento (42).
Sarebbe allora sufficiente, in questa come in fattispecie affini, per non inficiare il provvedimento d’illegittimità, rapportarsi sibbene all’esigenza di garantire il diritto al nome perché «sempre usato e da tutti riconosciuto nei rapporti personali, familiari, professionali e sociali posti in essere dal soggetto» (43), ma, in ossequio alla XIV disposizione, spendere pure qualche parola sulla sussistenza del titolo nobiliare, cui afferisce il predicato, siccome anteriore al
In questo senso è ragionevole informarsi, innazitutto (secondo le prudenti circolari nn. 44/2004 e 5/2005), all’Ufficio Consulta Araldica presso l’Archivio centrale dello Stato, senza, però, che l’eventuale negativa risultanza istruttoria debba necessariamente precludere il proseguimento dell’attività amministrativa, perché è indiscutibilmente possibile attestare la giuridica presenza d’un titolo nobiliare, prima del
3. ― Cenni sulla questione sostanziale inerente la cognomizzazione dei predicati dei titoli nobiliari.
Per altro, giova alla ricostruzione sistematica ed ermeneutica dell’istituto ripercorrere per sommi capi la giurisprudenza della Corte di cassazione in materia nobiliare, nei cui riguardi la riportata pronunzia del giudice delle leggi n. 101/1967 ha segnato un netto discrimine: le sezioni unite, infatti, dopo la dichiarazione di incostituzionalità della legislazione araldica, si omologarono all’interpretazione fornita dalla Corte (45),rivedendo il proprio costante e consolidato orientamento (46), fondato, «ai fini della cognomizzazione del predicato nobiliare (consentita dalla norma costituzionale)», sulla legittimità dell’accertamento «dell’esistenza del titolo nobiliare e quello della sua appartenenza al soggetto che richiede la cognomizzazione del relativo predicato, in base alla concessione originaria», ritenendosi «che siffatto accertamento, di carattere pregiudiziale, non contrasti con la norma medesima, in quanto necessario presupposto del diritto, riconosciuto dalla Costituzione, all’uso del predicato come parte del cognome patronimico», e osservandosi, «al riguardo, che l’esistenza, o meno, di un titolo nobiliare, agli effetti della norma costituzionale citata, va accertata in base alla speciale legislazione nobiliare, dato che la Costituzione non indica alcun diverso criterio» …: «invero, il diritto, espressamente previsto dallo stesso dettato costituzionale, di ottenere la stabile congiunzione del predicato (cui il titolo nobiliare è poggiato) al proprio nome, venendo il predicato a far parte di questo ed assurgendo, così ad elemento della personalità, con la relativa tutela giuridica dettata dalle leggi civili per la tutela del nome, può importare la necessità di accertamenti pregiudiziali, per l’opposizione di eventuali controinteressati» (così la parte motiva della decisione
L’attestazione araldica, per costante affermazione di dottrina e di giurisprudenza (48), aveva mero valore accertativo – non costitutivo – del titolo nobiliare, consistendo nella pubblicità dichiarativa che è propria dell’inserimento nei pubblici registri, giacché l’uso ufficiale del titolo – e, si noti, non del predicato – era subordinato all’obbligo di pubblica ricognizione; più esattamente, si trattava di un atto governativo di giustizia, per tanto estraneo alla regia prerogativa, che non precludeva l’accertamento per via giudiziaria o il ricorso amministrativo: la pubblica Amministrazione compiva un atto dovuto con valore di certazione, che comportava, sul piano formale, l’aggiunta di un asterisco accanto all’indicazione del cognome familiare riportato negli elenchi nobiliari (49).
Recente giurisprudenza di merito (50), a testimonianza della rinnovata vivacità intellettuale della tematica, si è commendevolmente discostata dall’appiattitosi surriferito indirizzo della giurisprudenza di legittimità, rilevando che «sembra riduttivo, a questo tribunale, far dipendere la cognomizzazione del predicato nobiliare, dall’esistenza d’un atto di ricognizione effettuato dalla consulta araldica e concluso con un decreto ministeriale. Per quanto concerne i titoli preunitari, un simile decreto non poteva influire né sull’esistenza né sul contenuto di un diritto per sua natura imprescrittibile e non usucapibile. Un riconoscimento mediante decreto non poteva non assumere, in questi casi, se non natura di mero atto di conoscenza presupponente un procedimento di verificazione ma concretizzantesi in dichiarazioni di scienza prive di oggetti innovativi o modificativi. Il “riconoscimento” cui far riferimento in questo caso, non può che essere quello voluto, per i titoli nobiliari preunitari, dallo Statuto Albertino del 1848. Le origini del titolo e, dato che qui più interessa, del predicato, vanno ricercate ben più a monte in quelle concessioni dei sovrani degli Stati preunitari ai quali lo statuto riconosce valore operando in un certo senso un riconoscimento ex lege. Alla luce di ciò, un eventuale ulteriore riconoscimento per provvedimento amministrativo, non può che risultare del tutto irrilevante» (51).
Da quanto precede, si possono ricavare i seguenti principî:
1) la c.d. cognomizzazione del predicato è legittima perché prevista dalla stessa Costituzione (52);
2) le vicende del diritto attribuito dal secondo comma della XIV disposizione devono essere valutate sotto ogni aspetto alla stregua delle norme che disciplinano i modi di acquisto del nome e la relativa tutela, imprescrittibili;
3) se si ritenesse che potessero raggiungere l’aggiunta del predicato solo i discendenti di coloro che ottennero il riconoscimento dalla Consulta Araldica, si priverebbe di un diritto – che la Costituzione ha inteso garantire – quanti a suo tempo non lo richiesero, e si introdurrebbe una decadenza contrastante con il principio che l’art. 2934, secondo comma, c.c., enuncia per tutti i diritti della personalità (53).
Ecco che al Ministero dell’interno non sarebbe richiesto di compiere alcuna analisi di diritto nobiliare (in quanto l’oggettiva esistenza del titolo deve preliminarmente risultare dall’atto formale di concessione emanato prima del
Roberto Maria Merlo de Fornasari
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(1) Dipartimento per gli Affari interni e territoriali - Direzione centrale per i Servizi demografici Area III - Stato civile.
(2) A firma del Direttore centrale Annapaola Porzio, indirizzata agli Uffici territoriali del Governo, e avente a oggetto le «Problematiche relative alla cognomizzazione dei predicati nobiliari».
(3) Non è del tutto superfluo osservare che «nella prassi amministrativa le circolari svolgono un ruolo fondamentale finendo per risultare il vero punto di riferimento dell’operato degli organi agenti, ed imponendosi come un diaframma rispetto al dettato legislativo» (come si legge nella voce Circolare amministrativa dell’«Enciclopedia Giuridica Treccani», a cura di Mario P. Chiti), dato che i pubblici dipendenti sono portati «a considerare come fonte effettiva della disciplina dei rapporti tra Amministrazione e cittadini la circolare, trascurando generalmente di tener conto diretto dei testi di legge» (per l’ultimo inciso, vedi Romano A., In tema di circolari amministrative, in «Riv. Dir.Fin.», 1959, II, 110). In ordine alle circolari amministrative, la giurisprudenza ha sottolineato che «si tratta di atti diretti agli organi e uffici periferici ovvero sottordinati, e che non hanno di per sé valore normativo o provvedimentale o comunque vincolante per i soggetti estranei all’Amministrazione» (Consiglio di Stato, Sez. IV, 15 febbraio 2002, n. 931). La sentenza citata, espressione di un orientamento giurisprudenziale costante (Consiglio di Stato, Sez. IV, 20 settembre 1994, n. 720; Consiglio di Stato, Sez. IV, 10 luglio 2001, n. 6401), ha ulteriormente chiarito che «le circolari non rivestono una rilevanza determinante nella genesi dei provvedimenti che ne fanno applicazione, per cui i soggetti destinatari di questi ultimi non hanno alcun onere di impugnare la circolare, ma possono limitarsi a contestarne la legittimità al solo scopo di sostenere che gli atti applicativi sono illegittimi perché hanno applicato una circolare illegittima che avrebbe dovuto invece essere disapplicata». La decisione conclude che «È comunque facoltà, ma non onere, del destinatario del provvedimento applicativo, impugnare specificamente anche la circolare» (sent. n. 931/2002, cit.). In conclusione, per gli «organi e uffici destinatari delle circolari, queste ultime sono vincolanti solo se legittime, di talché è doverosa, da parte degli stessi, la disapplicazione delle circolari che siano contra legem» (Consiglio di Stato, Sez. IV, sent. n. 931/2002, cit.), con ciò superando, conformemente all’evoluzione del rapporto di pubblico impiego, la meno recente tendenza dottrinaria a considerare comunque preminente, con il solo limite dell’ipotesi di reato, il vincolo gerarchico anche nella fattispecie in cui il contenuto della circolare contrastasse con il significato di norme giuridiche esterne (Zingali G., Sul valore giuridico delle circolari ministeriali, in «Dir. prat. Trib.», 1952, I, 97 e ss.; Uckmar A., L’efficacia delle circolari ministeriali, ibidem, 1951, II, 37 e ss.). Consiglio di Stato, Sez. V, n. 4524/2008, osserva che «… Poiché la “circolare” non ha alcuna idoneità a determinare effetti nei confronti dei soggetti estranei all’Amministrazione, l’interessato non aveva alcun onere di proporre una specifica impugnazione contro di essa. … Qualora, invece, si volesse attribuire alla circolare in questione una valenza sostanzialmente regolamentare, essa risulterebbe illegittima e disapplicabile dal giudice amministrativo».
(4) Su cui infra: in ogni caso, si rimanda, autorevolmente, al Presidente Emerito del Consiglio di Stato, Pezzana Aldo, La sentenza della Corte Costituzionale sui titoli nobiliari, in «Riv. Araldica», 1967, 205 e ss.; Idem, La Corte di Cassazione si adegua alla Corte Costituzionale, ivi, 1969, 188 e ss.; Idem, Orientamenti nuovi in tema di cognome Familiare, ne «Il diritto ecclesiastico», 2000, n. 4, 128 e ss., Giuffrè Editore, Milano; Bordonali Salvatore, Nuove prospettive sulla cognomizzazione dei predicati nobiliari, in «Foro it.», 2000, 2375, nota a sent. Trib. Catania
(5) Recante «Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche».
(6) Intitolato «Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge
(7) «... definendo gli obiettivi ed i programmi da attuare ed adottando gli altri atti rientranti nello svolgimento di tali funzioni, e verificano la rispondenza dei risultati dell’attività amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti ...».
(8) Contenente l’«Approvazione del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato». L’art. 26, primo comma, stabilisce che «Spetta al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale di decidere sui ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere o per violazione di legge, contro atti e provvedimenti di un’autorità amministrativa o di un corpo amministrativo deliberante, che abbiano per oggetto un interesse d’individui o di enti morali giuridici; quando i ricorsi medesimi non siano di competenza dell’autorità giudiziaria, né si tratti di materia spettante alla giurisdizione od alle attribuzioni contenziose di corpi o collegi speciali».
(9) Compresi tutti gli atti che impegnano l’Amministrazione verso l’esterno: art. 4, comma 2, D.L.vo n. 165/2001.
(10) Consiglio di Stato, Sez. VI,
(11) Si richiama, in proposito, anche il disposto del comma 1 dell’art. 21-octies della legge
(12) D’altro canto, in osservanza del principio del giusto procedimento, il D.P.R. n. 396/2000, cit., tiene fin da subito in considerazione la posizione di eventuali controinteressati, statuendo, all’art. 87, comma 1, che «Chiunque crede di avervi interesse può fare opposizione alla domanda non oltre il termine di trenta giorni dalla data dell’ultima affissione o notificazione». Le opposizioni sono vagliate dal Ministro, ai sensi del successivo art. 88, comma 2.
(13) La sentenza di Cassazione civile
(14) Ordinamento dello stato civile, abrogato dall’art. 110, comma 1, del D.P.R. n. 396/2000.
(15) A ulteriore chiarimento, si ponga mente alla circostanza secondo cui la sentenza della Corte di cassazione, sez. un.,
Fra l’altro, perplessità sorgono anche in merito all’asserita necessaria evocazione in giudizio dell’Ufficio Araldico presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, che potrebbe valere, eventualmente, come mero riflesso indiretto e mediato della XIV ma non certo nel significato che, nel vigore della legislazione araldica, era proprio dell’art. 72 dell’abrogato R.D.
Pezzana Aldo, La Corte di Cassazione si adegua alla Corte Costituzionale, cit., nella nota a commento alle sentenze delle sezioni unite della Corte di cassazione
Prima della sentenza della Corte costituzionale n. 101/1967, il fatto che le pretese attoree dovessero essere fatte valere in un giudizio ordinario nei confronti dell’Ufficio Araldico si spiegava, nel limitato vigore della legislazione araldica, in quanto ciò che andava appurata pregiudizialmente, nel caso in cui si fosse chiesta la cognomizzazione di un predicato annesso a un titolo a suo tempo non riconosciuto dalla Consulta Araldica, era la spettanza di un titolo nobiliare – verifica evidentemente oggi non più possibile – onde la necessità di avvalersi dell’ausilio tecnico di tale Ufficio, richiedendosi (così sez. un.
(16) Anche Pezzana, La sentenza della Corte Costituzionale sui titoli nobiliari,cit.,
Secondo la Corte di cassazione
(17) Cassazione, n. 2426/1991, cit.: «Ai sensi dell’art. 7 c.c. la persona alla quale si contesti il diritto all’uso del proprio nome o che possa risentire pregiudizio dall’uso che altri indebitamente ne faccia, può chiedere giudizialmente la cessazione del fatto lesivo, salvo il risarcimento dei danni».
(18) «… il cittadino dovrà pertanto necessariamente proporre una azione in via contenziosa ordinaria, nei confronti del Pubblico Ministero, dell’Ufficio Araldico presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, nonché nei confronti degli eventuali controinteressati».
(19) Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 906/1989.